L’organizzazione che respira

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L’organizzazione come ecosistema vivente

Un’organizzazione non è una macchina da governare, ma un ecosistema da coltivare. Olivetti lo aveva compreso prima di molti: l’impresa non poteva esistere separata dalla comunità, ma doveva diventare parte di un equilibrio sociale e culturale. Non era paternalismo, era responsabilità: un’impresa che respira insieme al territorio, che riconosce il legame tra produttività e dignità, tra lavoro e vita.

Marchionne, da un’altra prospettiva, ricordava che un’organizzazione non vive senza disciplina e responsabilità: senza regole chiare, il bosco diventa giungla. Nel passaggio dall’homo egocentrico — che vede l’azienda solo come macchina di profitto — all’homo ecocentrico, che la concepisce come organismo vivo, c’è la sintesi di queste due visioni: comunità e dovere, armonia e rigore.

Il paradosso dell’efficienza: la diversità come motore

Il pensiero egocentrico misura l’efficienza come riduzione, semplificazione estrema, omologazione. Ma Olivetti sapeva che l’efficienza nasce dalla ricchezza delle differenze: nelle sue fabbriche coesistevano lavoro, arte, architettura, cultura. Non per ornamento, ma per rendere più fertile il terreno in cui crescere.

Marchionne, in un altro contesto, mostrava che la diversità non è debolezza ma forza competitiva, se governata con responsabilità. La sua capacità di guidare team globali, di unire culture industriali diverse sotto una visione comune, è stata un esempio di efficienza nata dall’integrazione, non dall’uniformità.

L’homo ecocentrico riconosce questa lezione: non si ottiene produttività cancellando differenze, ma orchestrandole. E un’organizzazione che sa orchestrare diventa laboratorio di innovazione.

Dal mansionario al talento

Il mansionario è la logica egocentrica: ridurre le persone a compiti, incasellarle in ruoli fissi. Olivetti ribaltava questa idea: per lui ogni lavoratore era persona, con bisogni, aspirazioni, capacità che andavano oltre la mansione. Le biblioteche, le case, i servizi non erano “extra”, ma parte di un sistema che riconosceva i talenti come linfa vitale dell’impresa.

Marchionne, a suo modo, chiedeva altrettanto: non accontentarsi mai della posizione acquisita, non restare prigionieri del ruolo, ma assumersi responsabilità nuove. “Il lavoro non è mai finito” era il suo mantra, e in questo c’era un invito a superare i limiti dei mansionari per trasformarsi in motori di cambiamento.

Dal mansionario al talento significa dunque riconoscere che il valore dell’organizzazione non sta nella somma dei compiti, ma nella crescita delle persone. È lì che l’impresa diventa comunità.

Benessere come produttività

Per l’homo egocentrico il benessere è un lusso, un costo. Per l’homo ecocentrico è la condizione stessa di sopravvivenza. Olivetti lo aveva intuito: non esiste produttività senza benessere, non esiste fabbrica forte senza lavoratori che vivono in condizioni di dignità. Il welfare aziendale, allora, era visione: salute, cultura, comunità come basi della produttività.

Marchionne non parlava di benessere nei termini classici, ma ne sottolineava il lato etico: il rispetto per le persone, l’attenzione ai giovani, il rigore nel creare condizioni di lavoro dove il talento potesse esprimersi senza compromessi. Benessere significava soprattutto non tradire la fiducia: offrire sfide vere, opportunità concrete, responsabilità autentiche.

Oggi, integrare queste prospettive significa capire che il benessere non è un benefit, ma un fattore strategico. È ciò che rende un’organizzazione non solo più umana, ma più competitiva.

La cultura che genera valore

Ogni impresa ha una cultura, anche quando la ignora. Per l’homo egocentrico la cultura è facciata, marketing, parole vuote. Per Olivetti era fondamento: costruire una cultura che unisse etica, bellezza, responsabilità sociale. La fabbrica non era solo luogo di produzione, ma di educazione, di crescita collettiva.

Marchionne, più pragmatico, sapeva che senza cultura un’organizzazione collassa: valori come responsabilità, coraggio, dovere non erano accessori, ma ciò che teneva in piedi squadre globali in contesti di crisi. Per lui la cultura era soprattutto chiamata alla responsabilità, alla serietà di chi guida e di chi lavora.

La sintesi è chiara: la cultura non è ornamento, è linfa. È la vera infrastruttura invisibile che rende l’organizzazione un ecosistema capace di rigenerarsi e durare nel tempo.

Dall’organigramma ai fili rossi

Gli organigrammi descrivono gerarchie, ma non la vita. Olivetti lo aveva capito: il vero valore non stava nelle linee verticali, ma nelle reti orizzontali di relazioni, di comunità. Le sue fabbriche erano luoghi di legami, di appartenenza, di identità condivisa.

Marchionne, da leader globale, sapeva che il successo non nasce dal disegno astratto di un organigramma, ma dai fili invisibili di fiducia che collegano persone in tutto il mondo. Creare senso di appartenenza in contesti diversi era la sua sfida, e riuscì a tessere quei fili con la forza della visione e della parola diretta.

Un’organizzazione che riconosce questi fili rossi diventa più che un’impresa: diventa comunità. E questa è la lezione che vale anche per la società: la forza non nasce dai muri, ma dalle reti.

Conclusione

L’organizzazione che respira è quella che tiene insieme le due lezioni: l’armonia comunitaria di Olivetti e il richiamo alla responsabilità di Marchionne. Non c’è impresa senza comunità, ma non c’è comunità senza disciplina. Non c’è futuro senza benessere, ma non c’è benessere senza dovere condiviso.

È qui che si gioca la transizione dall’homo egocentrico all’homo ecocentrico: dall’impresa vista come macchina per il profitto all’impresa vissuta come ecosistema che genera valore sociale, culturale ed economico. Un modello dove le persone non sono pedine, ma corresponsabili di un destino comune.

Ed è qui che si misura la vera forza di un’organizzazione: nella sua capacità di diventare parte viva di una comunità, di respirare insieme al territorio e di costruire futuro non solo per sé, ma per tutti.

Chi è l'autore

Lapo Secciani

Sono un imprenditore, un manager e un creativo.
Non seguo gli schemi: li rompo.
Credo nelle persone, nel loro talento e nella loro unicità.
Il mio lavoro e le mie competenze tendono a far emergere il valore delle aziende e delle persone, disegno strade inesplorate e così genero valore: per le persone, per la comunità, per l’ambiente e per le aziende.
Mi ispiro a due modelli: Sergio Marchionne e Adriano Olivetti.

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