
“Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?”
Adriano Olivetti
Una figura anticipatrice
Ci sono uomini che sembrano provenire da un tempo che non è ancora arrivato. Non visionari astratti, ma persone capaci di incarnare nel loro agire quotidiano un’idea radicalmente nuova di società, impresa e comunità.
Adriano Olivetti è stato uno di questi.
La sua non è mai stata una ricerca del profitto come fine, ma una tensione coerente verso un’idea di progresso umano integrale, dove la cultura, il lavoro, la tecnologia e la bellezza convivono in equilibrio.
A più di mezzo secolo dalla sua scomparsa, la sua azione concreta parla ancora con forza, anzi, sembra finalmente trovare il tempo giusto per essere pienamente compresa.
In un’epoca che ci mette di fronte a una scelta evolutiva tra individualismo competitivo e senso del bene comune, Olivetti emerge come figura-simbolo di un nuovo modo di essere.
Non più dominati dall’ego, ma partecipi di un ecosistema sociale e culturale fondato sul NOI.
Fabbrica come destino, impresa come comunità
Lontano da ogni retorica industrialista, la sua fabbrica non era un luogo meccanico e freddo.
Era un organismo vivo.
Uno spazio dove il lavoro non era alienazione, ma forma di elevazione umana. Dove il progresso non si misurava solo in efficienza tecnica, ma nella crescita culturale e spirituale delle persone.
Il suo modo di fare impresa integrava dimensioni apparentemente distanti: architettura e giustizia sociale, formazione e urbanistica, spiritualità e management.
Non c’erano recinzioni nelle sue fabbriche: segno concreto di una volontà di apertura, permeabilità e relazione con il territorio.
Non c’era paternalismo, ma una responsabilità condivisa che nasceva da una visione alta, esigente e concreta della dignità del lavoro.
La cultura come architrave
L’impresa, per Olivetti, non produceva solo beni materiali. Era fabbrica anche di senso, di relazioni, di futuro. Accanto agli ingegneri e agli operai, lavoravano poeti, sociologi, architetti.
Il progetto industriale non era mai separato dal progetto educativo e culturale.
In una società che tende a specializzare e separare, questa visione appare oggi ancora più necessaria.
Non si trattava di un’azione “per il sociale”, ma dell’espressione più pura di un pensiero unitario: un’impresa che accoglie, connette e forma.
Dove la tecnologia non è neutra, ma viene orientata da valori umani.
Dove il lavoro non è un dovere da assolvere, ma un terreno fertile per esprimere il proprio talento e la propria vocazione.
Non un imprenditore “buono”, ma un riformatore radicale
Uno degli equivoci più frequenti è quello di ridurre Olivetti a imprenditore “illuminato”, isolato e anacronistico. In realtà, la sua opera è tutt’altro che romantica: è sistemica, lucida, progettuale.
La sua era una vera e propria visione politica dell’impresa e della società, non un’appendice decorativa del profitto.
La sua proposta sfidava il dualismo capitale-lavoro, andando oltre l’opposizione ideologica del secolo scorso. E lo faceva nella pratica, non solo nei saggi. Costruendo istituzioni educative, cooperative territoriali, scuole per dirigenti, fabbriche in armonia col paesaggio, congedi di maternità avanzati già negli anni ’40, modelli di governance innovativi.
E soprattutto immaginando una forma proprietaria dell’impresa che superasse l’eredità familiare per restituire il valore prodotto a una comunità concreta e territoriale.
La vera radicalità non è la rottura, ma la coerenza.
“Una visione che diventa azione. Un’azione che riforma, non che decora.”
Una mappa per l’evoluzione
Il tempo in cui viviamo è segnato da una domanda fondamentale: quale modello di essere umano vogliamo alimentare?
Da un lato l’homo ego-centrico: un individuo che misura tutto in termini di interesse personale, velocità e apparenza.
Dall’altro l’homo ECO-centrico: una persona consapevole di far parte di un tutto, capace di legare la propria realizzazione a quella della comunità.
In questa sfida, la figura e l’opera di Olivetti non sono un’eccezione folcloristica del passato. Sono una mappa.
Una mappa che ci dice che si può fare impresa generando cultura, che si può costruire tecnologia a misura d’uomo, che si può coniugare giustizia e bellezza, economia e spiritualità, rigore e speranza.
La sua profezia è già realtà.
Sta a noi scegliere se abitarla, se incarnarla, se portarla avanti — non come imitazione, ma come ispirazione viva.